La fonduta di vongole di Michele Serra
Pubblichiamo qui qualche stralcio dall’articolo di Michele Serra “Fonduta di vongole e altri inganni“, apparso su “la Repubblica” del 22 agosto 2010 a corredo di un servizio di Licia Granello che fa il punto su sagre, feste e fiere gastronomiche che costellano la nostra penisola (circa 37.500 quelle segnalate, cui partecipa il 75% degli italiani…).
«Ogni sagra gastronomica parte avvantaggiata da un pregiudizio favorevole quasi indiscriminato: perché è conviviale (si mangia insieme), perché è informale (si mangia anche con le mani), perché è liberatoria (si mangia molto e si mangia qualsiasi cosa, anche certe trionfali porcherie, summa di grassi e calorie, che in condizioni normali rifiuteresti con sdegno).
Questi evidenti meriti rischiano di far passare in second’ordine anche l’approfondimento della “genuinità” della sagra: se cioè affonda la sua storia in qualche tradizione o produzione locale, o se è l’invenzione last minute di un assessore spregiudicato, o di una proloco invidiosa della sagra accanto. Il rapporto tra tradizione e invenzione, del resto, è molto studiato e molto discusso: ogni tradizione in fin dei conti ha un suo inventore, una sua arbitrarietà più o meno accertabile e accettabile.
[…] le sagre vivono una crisi da troppo successo che le moltiplica a dismisura. Per orientarsi tra villaggi fumiganti e nubi di frittura che catturano il viandante anche a dieci chilometri, sarebbe dunque opportuno darsi un minimo di criterio selettivo. In una sagra doc, per evidenti ragioni identitarie e perfino etiche, il terroir dovrebbe fare la parte del leone, con i suoi corollari classici: filiera corta, tipicità di quello che si mangia, legame stretto tra stomaco e tradizione, tra metabolismo e cultura locale. Sarà ovvio diffidare, dunque, di una sagra della fonduta in Calabria, o di una sagra della vongola nel Bresciano, perché per quanto la globalizzazione mischi le carte e confonda i sapori, la sagra ha un suo senso se descrive (e circoscrive) un luogo e le sue tradizioni gastronomiche. In questo senso, meglio sarebbe – e stupisce che ancora non ce ne sia una – una festosa sagra del kebab a Milano, dove quegli spiedi arabo-turchi oramai sono di casa, piuttosto che una Sagra Celtica nelle campagne emiliane. Perché per quanto inventata possa essere una tradizione, ha radici più forti il kebab a Milano che il crauto a Bologna, specie se servito da camerieri in elmo cornuto.”
Chissà se le cifre fornite da Granello sono accurate – in effetti nei weekend, facendo i 35km che da Voghera salgono a Varzi, è tutto un fiorire di poster cartelloni striscioni che propongono le sagre e le fiere più svariate, ogni settimana, dall’immancabile festa della birra alla frutta, al salame…
Emanuele Bonati