Elegia della vita di campagna
La Casa Vecchia, la Casa Nuova. I campi, il pozzo, là in fondo. La stalla le mucche. Gli amareni, gli albicocchi, i ciliegi. Le viti. L’uva americana. La vendemmia, pestare l’uva con i piedi. Il sugo d’uva, una delle cose più buone (una specie di budino).
Nella Casa Vecchia seduto sulla finestra mangiavo svogliato e la nonna che mi imboccava diceva mangia ché sull’albero c’è l’uomo nero che viene e io mettevo in bocca poi mi voltavo e avevo tutto nella guancia come un criceto. Le angurie e i meloni dell’orto, a volte un campo intero: questa è buona? no? buttala alle galline, apriamone un’altra.
Le corse in bicicletta, le sere d’estate, le rondini stridevano nel cielo, cantavo a squarciagola – Senza Fine, Il Cielo in una Stanza, cose così – in mezzo ai campi. I campi di pomodori, le cassette vuote con cui giocare, le cassette piene da caricare sul rimorchio e da scaricare sull’aia. Le bottiglie d’acqua e Orzoro portate alle donne che li raccoglievano sudate sotto il sole. E a volte li raccoglievamo anche noi. La moscarola, il frigorifero di allora. Il nocino fatto dalla nonna Silvia. Gianluca, Antonio Brangogno, sua cugina Barbara. Claudio e sua cugina Silvana. La Casa Nuova, con le due tuie piantate per me e mio fratello Luca. I nonni, e noi d’estate, ci si sono trasferiti nel 1961. Le dorifore che mangiavano le patate.
Le estati in campagna, dal sabato dopo la chiusura delle scuole alla domenica prima del 1° ottobre. La colazione con i chisolini, una specie di gnocco fritto – da mangiare con il sale o con lo zucchero, la nonna che impastava e friggeva, noi che ci ustionavamo mangiandoli appena usciti dalla padella. La cantina della Casa Vecchia, con i salumi fatti col nostro maiale, appesi, golosi. Le bottiglie del vino del nonno, rosso dolce spumeggiante – ne portavamo sempre alcune a MIlano, una volta durante il viaggio saltarono i tappi. La nonna Silvia che faceva il burro, in un fiasco. Mi mandava a prendere le uova nel pollaio: a volte ne bucava uno sopra e sotto con uno spillo, e noi lo bevevamo, caldo caldo appena fatto dalla gallina. E bevevamo il latte delle mucche appena munto, mi piaceva la pellicolina che si formava sulla superficie. E i pomodori caldi di sole, raccolti dal campo, i perini, una stropicciata sulla maglietta per togliere le tracce di verderame, e gnam. E la carta moschicida, e il DDT. Le oche: le portavo a pascolare, sempre un po’ timoroso delle loro azioni e reazioni – il guardiano delle oche. E a ferragosto, oca arrosto, nel forno di mattoni in cortile, vicino al pollaio. E le torte, la crostata con la marmellata e sopra una copertura di mandorle tritate e albumi (ricostruisco a memoria). La sorbettiera che la nonna mi faceva sempre per il mio compleanno.
Il nonno Silvio usciva per andare a caccia, e tornava quando facevamo colazione. Lepri, quaglie, storni. Quando li mangiavamo dovevamo stare attenti ai pallini. E la Wanda, sarta come la mia zia Wanda, e i pomeriggi a raccogliere spilli e a chiacchierare. Sua mamma Maria, suo papà Aldo. Mezzadri. Nella Casa Nuova, d’estate il soggiorno-cucina si trasferiva di sotto, in una stanza che sarebbe stata uno dei due garage. Faceva molto più fresco. C’era la TV, e lì ho visto il primo uomo sulla Luna. Al nonno piacevani i combattimenti di boxe, e a volte li guardavamo assieme. Si preparava delle insalate, delle salse crude con le verdure del suo orto, e a volte le mangiavo anch’io. La zia Anna con la sua Fiat 500 (o era una 600?), a volte andavo con lei. I pulcini, che avevo paura a toccare, a prendere in mano. Erano vivi – si muovevano – e se gli facevo male? I topi, i pipistrelli, che schifo. Passava il “basulon” con il suo camion, era un mercato ambulante. le mollette, il sapone, le penne, la pasta, il gelato. “Basulòn” è il venditore ambulante, in dialetto, che girava a piedi, con un bastone, basül, a cui era appesa la basula, il cesto della mercanzia. Il fornaio veniva col furgone e io andavo a prendere quei pani grossi, uno o due. C’erano anche piccoli. Da grande, andavo a prenderlo in bici, o in moto, a Castione. E andavo anche al caseificio vicino ad Alseno, il burro, il Parmigiano, mi aggiravo tra le file di scaffali inebriato, e ne vuoi assaggiare un pezzetto, grazie. E li compravo anche da portare con noi a Milano.
I cappelletti di Parmigiano. Per me Luca Andrea la summa di tutte le delizie, uno due tre piatti, tutti, il brodo, vuoi il formaggio?, Andrea no, la cosa più buona del mondo coi chisolini, casa, amore.
La nonna Cesira, che poi era una bisnonna, curva sul suo bastone, sapeva di buono e di morbido. Ricordo vagamente (o penso di ricordare) quando è morto il nonno Carlo, suo marito, io giocavo con una astronave a molla. Chissà dov’è. La nonna Cesira aveva sempre le tasche piene di caramelle di pomo. Le facevano a Cadeo. Chissà se esistono ancora – no, penso che non ci siano più, come tanti, tante persone, tante cose. Come le visite diradate, le parole non dette, tanto siamo eterni, siamo qui. Saremo sempre qui, insieme. Il nonno Silvio, la nonna Silvia, la mamma, il papà.
Abbiamo venduto la Casa Nuova, oggi.
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