Sul leggio di BlogVs: La vita burrosa di Philippe Léveillé
Penso di non aver mai letto tante volte la parola “burro” in un libro – nemmeno in un libro di ricette – quante l’ho letta in questo libro di Philippe Léveillé.
Che si intitola appunto La mia vita al burro. Romanzo culinario (Giunti, 2015, pp. 192, 16€). L’autore ripercorre la sua vita trascorsa spalmando burro al di qua e al di là di una serie di oceani e di cucine, fino al suo approdo italiano, a Concesio – alle due stelle del Miramonti l’altro.
Sembra che tutto per lui sia filato liscio come l’oli… come sul burro, e a Léveillé va riconosciuta una buona dose di sfrontatezza, oltre che di capacità gastroculinarie, e di fortuna, e di simpatia, e di competenza. In realtà, il libro racconta una vita a suo modo avventurosa, non certo nel senso di no-limits, quanto ricca di esperienze che lo hanno portato dagli allevamenti di ostriche alle cambuse di traversate oceaniche, dagli incontri più o meno fortuiti con il meglio della ristorazione mondiale, compreso Luigi Veronelli, che lo omaggerà inginocchiandoglisi davanti in omaggio al suo “Crescendo d’agnello”.
Le persone: è un libro particolarmente ricco di persone, di amicizie, di rapporti, come quello con Gino Giribardi e Fausto Capra, “i clienti più importanti della mia vita, non solo personale”. O con la moglie Daniela.
O con Mauro Defendente, che ha scritto “Sua golosità il burro“, un vero e proprio trattato in appendice al volume (è un medico endocrinologo e nutrizionista, mi sembra di capire anch’egli butter-addicted). Cito le righe finali: “Il burro è piacere, e come tale deve rimanere in tavola: pochi grammi di burro adagiati sul pane, con un ‘niente’ di sale, una minuscola alice del Cantabrico, o due grani di zucchero, possono rappresentare una tentazione alla quale lasciarsi andare come piacere assoluto e, al tempo stesso, costituire una protezione per mente e corpo”. Anche se poi mi chiedo se un’alice un po’ meno minuscola, anzi decisamente maiuscola, non vada bene lo stesso.
Ah – naturalmente, ci sono delle ricette. Il libro è diviso in capitoli – a proposito, complimenti al grafico, Raffaele Anello, che è riuscito a dare una veste di estrema eleganza a un libro semplicemente “scritto”, senza immagini – e bella la copertina, di Lorenzo pacini: un panetto di burro. Ogni capitolo inizia con una ricetta, dicevo: e ognuna è un sigillo messo su un periodo, un’esperienza come può esserlo una traversata in barca o l’incontro con Angelina Jolie (di cui ha riconosciuto peraltro prima il marito, Brad Pitt). Non sono cioè necessariamente ricette proposte perché il lettore possa rifarle a casa, magari “aggiustate” per questo: sono veri e propri momenti del racconto, concentrati in due pagine o dettagliati in otto, che hanno lo stesso valore del racconto dell’incontro con Mauro Piscini, e con sua madre Mary (ovvero col Miramonti), con l’inciampo nel fango, la giacca bianca stazzonata e così via.
Ecco, il libro è così: Léveillé scrivendolo ha riso, cantato, si è arrabbiato, si è incupito e ha pianto. E tutto questo si legge in ogni pagina.
“In Bretagna, su ogni tavolo di cucina c’è il burro, a tutte le ore e in tutte le stagioni, metterlo in frigo sarebbe un sacrilegio. Si copre la ciotola del burro con un panno e la si lascia sul tavolo. Al limite, se d’estate fa molto caldo, si porta in cantina, ma in frigo jamais! Altrettanto a portata di mano (e di vista) in cucina deve esserci il vaso di terracotta con il sale grosso e il cucchiaio di legno piantato dentro,”
Emanuele Bonati
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