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BLOGVS | November 22, 2024

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BlogVs da leggere: Liccamuciula racconta…

Emanuele Bonati

I biscotti di mandorla dei Sioux

di Liccamuciula

Tutte le storie ne sussurrano una: quella che non racconteremo e che pure tutti dovremo vivere.

Se valgono qualcosa, ci conducono altrove, e dilavano i confini tra questo mondo e un altro.

Nel frattempo, le storie insegnano, testimoniano, liberano e  gridano, innamorano. Tirano i capelli a ragazze addormentate da secoli e fanno rifiorire lussureggianti bellezze che il tempo ha trasformato in resina.

Vivo in un villaggio di pescatori, dove sei barche e cinque famiglie sono tutto ciò che rimane di una storia memorabile di uomini, di maree, di enormi pesci guizzanti dal fondo salato e oscuro della natura.

Alcuni nomi – buffi, gentili o austeri – splendono contro l’arenaria che sigilla le vecchie storie della tonnara di Marzamemi.

Il villaggio è tutto in arenaria bionda e bianca, come Angelica nell’Opra dei pupi, e, nonostante la cintura di brutte case nuove e gli aculei di baretti in stile metropolitano, non mette in fuga le ombre. Ecco, posso chiamarle per nome ed esse non interrompono il lavoro quotidiano – conzare reti o impastare o girare enormi cauraruni di cibo: la mia voce è un fruscio estraneo che lascia un velo dolce di stupore sui volti concentrati a vivere semplicemente.

Ci vuole molta fatica a vivere semplicemente, e loro, gli abitanti del villaggio, sono ben lontani dal  saperlo: le loro storie sono già nel luogo profondo e sicuro in cui tutto si possiede d’istinto.

Posso chiamarli per nome.

Matticana, che svegliava alla pesca gridando: ciurma a mare!

Raisi Catrini, detto il Principe.

Sua figlia Nina, cui la Madonna promise di morire giovane, al posto di una figlia.

Donna Sara, maestra cuciniera di sugu e di salsa.

Lisa, che tagliava le tempeste col coltello.

Oggi, nessuno sa più cosa sia una tonnara, anche se nelle edicole dei nostri paesi si trovano  saggi e racconti, più o meno leggibili e puntigliosi, che spiegano quando e come si calavano le reti  ingegnose e terribili, come si pescava questo enorme pesce babbasuni, buono di carne e di indole, terrorizzato da rumori e colori sgargianti. Le tradizioni delle tonnare della costa occidentale si mescolano con testimonianze e racconti di quelle della costa orientale e calabresi, in un inafferrabile ed enfatico miscuglio di notizie tecniche, memorie e foto d’epoca, che mi hanno sempre fatto sentire una  ragazza Sioux. Esattamente come i nativi americani costretti in una riserva, ho sempre sentito che qualcosa mi era stato tolto, e che tutta questa storia, per quanto attraente e colma di insegnamenti circa la felicità di tempi in cui non c’era la luce elettrica e i tetti erano rossi di conserva, non mi conquistava né mi apparteneva.

Oggi so, dopo una lunga circumnavigazione intorno a terre a malapena emerse, e grazie al cortocircuito tra memoria, studio ed uno strano temperamento, che c’è in quella storia – la micro-storia di un villaggio-tonnara abbandonato come un relitto d’oro tra Ionio e Mediterraneo –  un nucleo incandescente.

Appare appena, come l’aura di un tramonto, tra le mani di Matticana e donna Sara.

Splende come un anello tra le dita di Raisi Catrini, di Nina, e di tanti abitanti del vecchio villaggio.

Cerco quello splendore, interrogo il suo significato, nella caligine fresca di una cattiva annata, di una stagione buia e senza pesce nell’estate di tanto tempo fa.

Le barche nere della tonnara, snelle e cupe come il traghetto di Caronte, uscivano a tentare il mare, e tornavano con la loro fierezza appannata. La rete dei tonni le prendeva in giro, ciondolava vuota tra le onde profumate, tanti mesi dopo la cala dei gabbioni.

I tonni, stranamente svegli e accorti, se ne stavano alla larga, e tutto l’armamentario della tonnara, comprese l’ipnotica nenia della cialoma, la camera della morte, e le mani svelte dei bambini che avrebbero smistato i pesci piccoli, restava bloccato in un incantesimo, attendendo il risveglio febbrile della grande pesca.

Allora, un pezzo di cappotto, lercio e scuro, avrebbe sventolato dallo scieri del Raisi, a segnalare la pesca di cento tonni. Il Principe avrebbe sorriso soddisfatto, chiudendo gli occhi sul furto di qualche pezzo d’uovo di tonno o di palamito.

Sarebbe stata la buona annata invocata da una cialoma famosa, non il canto di lavoro della tonnara di Marzamemi, di cui rimane poca e rimaneggiata traccia: la mia gente, ad certo punto, non ha più avuto bisogno delle sue memorie, poco utili nelle città del Nord o nei quartieri piccolo-borghesi del capoluogo di provincia. Si conserva ciò di cui si ha bisogno, ed una vela così bianca da sembrare azzurra non occorre a chi deve contare bulloni o sposare la figlia ad un impiegato dell’anagrafe, su in città.

In ogni caso, quell’estate di penuria e di tonni sperti aveva bisogno di storie, di gente coraggiosa, e di vino rosso per cancellare il livore. Il mare si era semplicemente chiuso, incollando le sue valve come una donna strega, una maiara. Il Principe proprietario della tonnara chiamava il suo omonimo, il Raisi Catrini detto Principe, il cui titolo assai più illustre e svettante derivava dai regni marini, e  gli strofinava faccia e muso nella polvere davanti ai suoi uomini.

Il Principe proprietario veniva, con ogni probabilità, da una grassa famiglia di raisi o forse commercianti di pesce calabresi: dopo aver comprato il titolo, un paio di secoli dentro le stanze afose e preziose dei palazzi nobiliari di Noto avevano cancellato certe grossolanità, ma non l’occhio svelto nel contare tonni e nel registrare il valore dell’annata, nel capire quanto la radice preziosa della loro ricchezza, la tonnara di Marzamemi, avrebbe reso quell’anno. Nell’anno in cui accadde questa storia la radice era come disseccata, e il colpevole era il Raisi Catrini.

“La piuma di gallina, signor Raisi, ve la dovete infilare ’ndo culu. Manco lo straccio bianco dei dieci tonni avete portato.”

Il Principe arrancò furioso dalla porta affacciata sul baglio del palazzo, verso l’ombra verde del grande albero di fico. Si fermò, imitando la spennellata con cui, chino dalla barca, il Raisi faceva in mare una lente d’olio da cui osservava i flussi dei tonni.

“Questa ce la dovete stricare a vostra moglie, e mettetevi a fare il capo che siete, capo di pesci, no di viddani.”

Il Raisi pregò che la moglie non stesse sentendo. Quella era dappertutto come un diavolo, la Raisa, che comandava in terra quanto lui in mare. Era piccola e brutta e lui alto e bellissimo. L’aveva sentita cantare in chiesa a Portopalo e l’aveva voluta, onesta, pulita e luciferina, così com’era, si era fidato della sua voce aspra, che controllava e sovrastava tutte le altre.

“Ora,” continuò il Principe, “o qui i tonni arrivano e allora facciamo finta di nulla e facciamo festa… oppure ’ama a cominciare a raggiunari, dobbiamo ragionare, di chi vi dà da mangiare e da dormire questo inverno, perché da qui, ve ne dovete andare tutti, tutti insieme in una notte, picciriddi magari, come gli Ebrei nel deserto, signor Raisi.”

Il Raisi del mare e dei tonni sapeva tutto. I suoi uomini lo rispettavano come un vero capo: non beveva, non bestemmiava, e al contrario della moglie, era di bocca pulita e forbita, le rare volte in cui si udiva discorrere la sua voce. Aveva mustacchi ordinati, schiena forte, voce dolce e composta. Del mare sapeva tutto. Se i pesci non arrivavano non era cosa che gli uomini potessero ragionare. Quello che si ragionava e si decideva, era stato fatto.

E perché a Scopello o Pizzo si calava la rete per san Giorgio, ad aprile, anche se il signor tonno arrivava un poco più tardi? Non lo sapeva il Principe? San Giorgio scannava la bestia a forma di drago, di serpente, ma sempre bestia era, sempre diavolo. Il tonno pure da lì veniva, da cose che andavano piegate con la lancia dei santi, con i coltelli delle maiare, cose che non si potevano ragionare.

Un Raisi deve portare pazienza, avere un cuore coraggioso più per gli uomini che per la tempesta. Perché in quel mare tiepido e chiuso rischio di morte ce n’era abbastanza, ma era più forte il rischio di non essere più niente, di scivolare atterrato con le gambe molli.

Raisi Catrini guardò il pezzo di cappotto lercio sul fondo dello scieri, la bandiera agognata della pesca grossa. Veniva dall’abito di nozze di un pescatore di Santa Panagia, che era morto mangiato dal male niuro e prima di morire a venticinque anni aveva saldato il suo conto con il mondo dei tonni, di san Giorgio e delle ombre bagnate, stracciando i suoi vestiti e facendo a pezzi le quattro masserizie che possedeva.

Non sapeva il Raisi, che di lì a poco il pezzo di cappotto avrebbe sventolato molte e molte volte, contro il mare che adesso aveva spalancato le sue valve, scandendo le giornate straordinarie di quella che diventò una stagione di pesca memorabile.

Il Principe fece radunare il Raisi e i suoi uomini nella Loggia della tonnara, enorme tempio di pietra zuccherina, dagli altissimi tetti da cui pendevano i tonni squartati. Fece portare, per festeggiare la buona annata, vassoi carichi di biscotti di mandorla, quelli spolverati di bianco, con il capezzolo di ciliegia rossa.

“Ciurma!” disse il Raisi, fermando i suoi uomini.

Con quel gesto Raisi Catrini, monaco delle schiume marine e capitano di canali sotterranei, non fermava solo il desiderio di chi quei biscotti da principesse li vedeva, forse, solo a Natale,

“Ciurma” disse il Raisi. Si avvicinò a un tonno grasso e lucente, gli mise in bocca un biscotto. “E’ a lui che dobbiamo ringraziare, Voscienza, Principe”  disse.

E se ne andò, seguito dai suoi uomini, senza toccare un biscotto.

Il biscotto che Raisi Catrini, ultimo raisi della tonnara di Marzamemi, mio bisnonno, mise in bocca al tonno finalmente incagliato insieme ad altri cento, era l’equivalente della lancia di san Giorgio – il suo speculare contrario.

Qualcuno potrebbe vedere in quel biscotto un piccolo pezzo di dignità ricomposta, da parte di uomini di mare e di fatica che talvolta ricordavano, con un semplice gesto, l’esistenza di altre gerarchie, forse brutali quanto quelle del mondo dei rigattieri diventati nobili, ma scaturite da un altro scenario. E di certo, il biscotto del Raisi Catrini era anche questo.

Ma era anche l’offerta al mondo delle creature primigenie e misteriose, un pezzo della mappa di luoghi diurni e assolati in cui vivi e morti camminavano insieme, condividendo cibo, fatiche, canzoni. Conoscere,  o almeno immaginare quel mondo,  trasforma i relitti in cose vive, vere barche che solcano e trasformano mari di inutilità e solitudine in un grande coro che respira e consola.

Avvicina al nucleo incandescente che un’antica comunità di pescatori stremati, bambini magri e donne sdentate anzitempo alimentava e custodiva,  e fa si che le ragazze Sioux possano ancora oggi innalzare un canto per la pioggia e per la vita, al di là delle curiosità dei turisti e della retorica dei bei vecchi tempi che non servono più a nessuno.

Resta ancora da dire da dove arrivavano i biscotti che il Principe offrì alla sua ciurma.

Forse da Noto, cittadina sonnolenta dove una sfavillante residenza, ricamata da maschere e frutti, perpetua il nome di quella  casata. Non erano certo i biscotti di Nina, la figlia del Raisi Catrini, mia nonna: piccoli e profumati di limone, decoravano una mensa semplice e sapida, dove tutto sprigionava storie.

Quando mia madre, erede della mano prodigiosa di Nina, prepara i biscotti di mandorla, le porte della cucina si spalancano e le piccole ranocchie che saltellano tra i vasi di gerani si avvicinano incaute. Nina canta Lazzarella alle sue bambine, strizza l’occhio alla Madonna, ricordandole  il loro patto.

Biscotti di mandorla di Nina

1 kg di farina di mandorle

1 kg di zucchero

da 8 a 10 chiare d’uovo

buccia grattugiata di 3 limoni siciliani, non trattati

ciliegie candite rosse e verdi

un cucchiaio di miele

Impastare la farina di mandorle con lo zucchero e le chiare d’uovo. Aggiungere le bucce di limone finemente grattugiate e un cucchiaio di miele, lasciar riposare l’impasto per un’ora. Porre l’impasto, che dovrà risultare molto morbido, in una tasca da pasticciere con il beccuccio argentato. Formare delle piccole palline, schiacciarle leggermente e porre su ciascuna una ciliegia candita.

Infornare nel forno preriscaldato a 180 gradi e cuocere per quindici minuti circa. Conservare in una grande boccia di vetro infiocchettata.

Liccamuciula

http://www.liccamuciula.it/

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